Gli analisti di settore attendevano una forte reazione dei prezzi del petrolio, nella sessione di ieri, diretta conseguenza dell’attacco sferrato dal regime dittatoriale di Teheran contro Israele, tuttavia, gli investitori non sembrano essere intimoriti da una possibile escalation del conflitto in grado, potenzialmente, di determinare una marcata carenza di fornitura di greggio, ragion per cui le quotazioni del barile non hanno solamente iniziato gli scambi in una condizione di sostanziale neutralità ma, al contrario delle attese, le velleità rialziste si sono trasformate in una discesa dei prezzi che, per quanto concerne il Brent, si attestano ad 89,4 dollari per barile in calo dell’1,2%.
In poche parole, il messaggio che il mercato sembra inviare è che, per ora, il rischio di una grave escalation e di ritorsioni da parte di Israele è relativamente basso. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che a Israele sono stati inflitti pochi danni, nonostante l’Iran e i suoi alleati abbiano inviato più di 300 missili e droni nell’attacco del fine settimana. Israele ha dichiarato che, nonostante una ritorsione sia stata effettivamente autorizzata, allo stato attuale non è da ritenersi imminente e, inoltre, sta trapelando l’idea - tra gli investitori - che l’azione dell’Iran fosse puramente simbolica e che Teheran fosse ben conscia del fatto che le armi impiegate nell’attacco avrebbero fatto ben pochi danni, ragion per cui, in un contesto di questo tipo, è plausibile pensare che una escalation significativa potrebbe essere evitata.
Interessi comuni?
Un’altra ragione è che un allargarsi del conflitto influirebbe sulle esportazioni di greggio di tutti gli attori presenti nell’area che, di conseguenza, tendono ad evitare un evolversi della vicenda in questa direzione. L’Iran sta tornando a una parvenza di normalità nelle sue esportazioni di petrolio dopo anni di sanzioni occidentali, e sarebbe riluttante a vedere qualsiasi seria mossa guidata dagli Stati Uniti volta a limitare ancora una volta le sue spedizioni di greggio.
Gli USA, inoltre, desiderano evitare un espansione del conflitto in quanto indurrebbe un rialzo dei prezzi della benzina che, soprattutto in prossimità delle elezioni, risulterebbe un problema nella corsa alla Casa Bianca di Joe Biden, al pari di un eventuale coinvolgimento diretto dell’America in Medio Oriente. Anche gli esportatori dell’area come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait vogliono dare l’impressione di garantire un’offerta stabile di petrolio, anche se a loro piace l’idea di un prezzo stabilmente vicino ai 90 dollari per barile. Il problema per gli esportatori di petrolio è che se i prezzi del greggio dovessero raggiungere i 100 dollari al barile e oltre ci sarebbero potenziali ripercussioni sulla domanda, in quanto i paesi occidentali mantengono una politica monetaria restrittiva per evitare una nuova ondata di inflazione e i paesi in via di sviluppo in Asia riducono le importazioni.
L’Agenzia internazionale per l’energia ha già ridotto le sue previsioni per la crescita della domanda di petrolio nel 2024, tagliandola di 130.000 barili al giorno a 1,2 milioni di barili giornalieri, citando un consumo più debole nelle economie sviluppate.
Tra coloro i quali potrebbero trarre profitto da un’espansione del conflitto troviamo Donald Trump: l’ex presidente, che si sconterà nuovamente con Joe Biden per la conquista della Casa Bianca nelle prossime elezioni, avrebbe buone argomentazioni per contrastare l’attuale amministrazione, ad esempio un incremento del costo della benzina ed il conflitto stesso.
Anche il presidente russo Vladimir Putin potrebbe vedere un vantaggio in un conflitto più grande, poiché l’aumento dei prezzi del petrolio aumenterebbe le sue entrate e l’attenzione occidentale sulla sua guerra in Ucraina verrebbe dirottata verso il Medio Oriente, ma resta il fatto che la maggioranza dei partiti probabilmente vuole vedere la situazione allentarsi, e alla fine cerca una sorta di cessate il fuoco a Gaza.
Fonte Reuters